Il diritto è arte. Ed è bene che gli avvocati ne siano i primi divulgatori.

Abstract

Occorre andare al di là dell’analisi della singola norma osservando il senso ulteriore che il Legislatore ha voluto esaltare nel confezionare un precetto per poter capire appieno la funzione della Legge quale regolatrice del bene comune.

Ogni tanto faremmo bene anche noi Avvocati a fermarci un attimo a riflettere. Abituati come siamo – e come sono tutti – a correre tra udienze, atti in scadenza, commenti e pareri su norme e provvedimenti finiamo per prestare la nostra assistenza e la nostra difesa in un momento di sofferenza e di difficoltà per l’assistito, quando il danno per questi si sta rappresentando ovvero si è già verificato e bisogna al più presto porvi rimedio. È questa la famosa “fase patologica” del rapporto giuridico, infelice ma comune espressione volta più a rappresentare la sofferenza per una malattia piuttosto che il ricorso alla Giustizia quale garante di diritti.
Ebbene, non denigro di certo l’attività di difesa, il processo quale un’appassionante partita a scacchi, la domanda vincente e l’eccezione dirimente; questo è il cuore pulsante dell’esercizio dell’attività forense. Un Avvocato che non sa condurre un processo non sempre opera sotto una buona stella.
Ma io credo e sono fermamente convinto che il legale debba oggi più che mai spingersi oltre ed affiancare a tale capacità professionale un’ulteriore qualità, un ulteriore mandato conferito più dalle regole della convivenza civile che dal cliente e che, una volta espletato, riversa i suoi benefici verso lo stesso assistito e da questi alla collettività intera.
Partiamo da un concetto di base. Il diritto è indubitabilmente un’espressione dell’arte. Lo avevano capito già i Romani che insegnando il diritto al mondo intero scrivevano che “Ius est ars boni et aequi”, trasfondendo in tale brocardo il loro concetto di convivenza civile in cui interessi opposti si intrecciano nella difficile organizzazione del vivere in comunità e vengono compressi nell’idea del buono e dell’equo in una sublime transizione di fasi tra ciò che è giuridicamente giusto con ciò che è moralmente buono. Sì; di arte si tratta, perché il diritto non va inteso quale mera espressione tecnica di comportamento, né come sterile precetto che, caduto dall’alto, impone il suo dictat, ma come espressione di una funzione etica e morale che detta regole di vita sociale.
E se l’arte è cultura questa va diffusa; e se, dunque, il diritto è arte questo va illustrato, va spiegato, va rappresentato per essere compreso e fruito.
Credo che tale funzione sia demandata anche a noi Avvocati che, forse più d’altri, siamo vicini alle persone nella quotidiana convivenza sociale così come alle imprese, nei loro quotidiani rapporti commerciali e di autogoverno. Dedicando il mio operato professionale al mondo degli enti mi accorgo che le norme sono spesso percepite come un ostacolo, un’eccessiva burocratizzazione del lavoro; tale miope visione porta spesso l’imprenditore a porsi insensibile ai dettami normativi perché non comprende la loro funzione sociale, ma li identifica solo come mero costo. E allora, affronta il rischio di non adeguarvisi. Un esempio? Ce ne sono molti; il più comune è la gestione della responsabilità amministrativa degli enti sulla quale l’impresa si scotta – o addirittura si brucia – per non essersi previamente adeguata. È poi come mettere una porta blindata ad un ingresso già profanato dai ladri.
Il diritto non si identifica con ciò che piace al singolo e che torna a questi utile, ma con ciò che è utile al bene collettivo e quindi, indirettamente, al singolo. È questo un circolo vizioso che si deve tramutare in un “vincolo virtuoso”. E se il legale, primo operatore di diritto a contatto con il singolo, riuscirà a farsi promotore di questa filosofia verrà maggiormente apprezzato e potrà rendere al proprio assistito e alla collettività intera un impareggiabile servizio.

Avv. Giulio Sprio

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La delibera assembleare avente ad oggetto la richiesta di un finanziamento soci: efficacia vincolante o semplice proposta contrattuale?

Abstract

Una vicenda che ha visto coinvolta una Cliente dello Studio, socia al 30% di una Società a Responsabilità Limitata, ha offerto lo spunto per questa breve riflessione e analisi sull’efficacia vincolante – o meno – di una delibera assembleare con cui viene richiesto ai soci di erogare un finanziamento.

Nel caso di specie, l’Assemblea aveva deliberato l’erogazione di un finanziamento soci infruttifero, al fine di dotare la Società della liquidità necessaria per poter adempiere ad un accordo transattivo raggiunto nell’ambito di un contenzioso giuslavoristico.

La Cliente, non presente in Assemblea, si è dunque chiesta se la decisione assembleare dovesse ritenersi per lei vincolante, con conseguente obbligo di effettuare, in favore della società, il versamento deliberato.
La risposta (negativa) al quesito è stata ricavata da alcuni principi espressi dalla giurisprudenza di merito (Tribunale di Milano, 19.06.2017 – Tribunale di Roma 08.01.2016), sulla scorta dei quali la delibera dell’assemblea di una società di capitali, avente ad oggetto la richiesta ai soci di un finanziamento, non può appunto fondare un credito della società verso il singolo socio, occorrendo invece una ulteriore manifestazione di volontà negoziale da parte di quest’ultimo quanto all’assunzione dell’impegno al finanziamento.
In altre parole, la sola delibera assembleare non può far sorgere in capo al socio alcun impegno vincolante in merito all’erogazione del richiesto finanziamento, né può costituire per il medesimo socio un obbligo a stipulare un accordo in tal senso.

La delibera si atteggia, infatti, come una mera proposta contrattuale formulata dalla società che, per tradursi in un vero e proprio contratto, deve necessariamente ottenere l’adesione – espressa o, eventualmente, anche per fatti concludenti – del socio. Pertanto, in assenza di un successivo e specifico accordo con la società (da stipularsi preferibilmente in forma scritta, nonostante non vi sia per Legge alcun vincolo di forma), il socio si può dunque legittimamente rifiutare di ottemperare alla richiesta di finanziamento deliberata dall’Assemblea, senza dover temere eventuali iniziative giudiziarie ai suoi danni che, qualora proposte dalla società, verrebbero verosimilmente rigettate.

Tra l’altro, i principi espressi dalla giurisprudenza trovano applicazione anche nel caso in cui – diversamente dalla fattispecie che ha coinvolto lo Studio – il socio abbia presenziato all’Assemblea e si sia limitato a esprimere voto favorevole alla richiesta di un versamento in conto finanziamento soci. Difatti, se dal verbale assembleare non emerge, in termini chiari e univoci, la volontà del socio di assumersi l’impegno ad eseguire il finanziamento, il suo voto favorevole non è ritenuto di per sé idoneo a far sorgere l’obbligo di versare nelle casse sociali la somma deliberata, occorrendo anche in tal caso la conclusione di un ulteriore e distinto accordo tra socio e società.

Nulla quaestio, invece, sul fatto che la decisione di un socio di non concludere l’accordo di finanziamento proposto dalla società non può avere alcun riverbero sulla volontà negoziale agli altri soci, dal momento che ciascuno di essi può ritenersi pienamente ed autonomamente legittimato ad aderire alla richiesta della società, con la quale potrà ben  definire i termini e le condizioni del prestito.

In conclusione, se il socio non assume – espressamente o per infatti concludenti – l’impegno ad eseguire il finanziamento proposto dalla società a mezzo delibera assembleare, tale delibera, seppur assunta con il suo voto favorevole, non può far sorgere, in capo al medesimo, alcun obbligo di eseguire il versamento deliberato, e non può dunque fondare, nei suoi confronti, una valida e legittima pretesa creditizia della società.

Avv. Lorenzo Bramati

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L’aumento dei costi di produzione e la rinegoziazione del prezzo

Abstract

La recente emergenza sanitaria in uno con gli ultimi avvenimenti in Ucraina hanno provocato alle aziende di tutto il mondo crisi di approvvigionamento di materie prime e materiali in genere, e coslaumento esponenziale dei relativi costi.
Aspetti questi che necessariamente impattano sui rapporti commerciali di fornitura e servizi in termini di corretta, tempestiva e soddisfacente esecuzione dei contratti pendenti…

Le aziende produttrici, in particolare, accusano un sopravvenuto squilibrio economico dei contratti rispetto alle prestazioni originariamente pattuite, laddove a fronte del maggior costo della produzione, il corrispettivo del prezzo rimane invariato. Sempre a causa dell’imprevedibile escalation dei costi di produzione le aziende accusano inoltre difficoltà nel provvedere a una stima preventiva della redditività degli ordini che pervengono in questi giorni e che vengono comunque accettati pur di salvaguardare i rapporti commerciali coi clienti.

L’assunzione da parte delle aziende di una tale alea contrattuale è alla base della richiesta sempre più insistente di adeguamento del prezzo convenuto. Qualora vi sia il consenso dell’altra Parte, nulla quaestio, la pattuizione viene novata e le Parti danno vita a un nuovo accordo sul valore delle prestazioni.

Ma come fare se il Cliente non è d’accordo?

Risulta opportuno conoscere in quali casi e con quali rimedi la Legge o il contratto possono soccorrere all’impasse commerciale.

La Legge anzitutto dedica una specifica disciplina all’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), prevedendo, al verificarsi di eventi che comportino mutamenti sensibili all’alea del contratto sinallagmatico, il rimedio della risoluzione, per ottenere la quale bisogna comunque dimostrare che l’aumento del costo delle materie prime non rientra nella ordinaria oscillazione dei prezzi di mercato ma è dipeso da abnormi cause di natura economica e finanziaria che hanno inciso sui prezzi in maniera straordinaria e imprevedibile.

Appare evidente come la realtà operativa trovi lo strumento della risoluzione, così disciplinato, troppo spesso insoddisfacente poiché non idoneo ad imporre un riequilibrio delle condizioni contrattuali, ipotesi sempre rimessa all’autonomia delle Parti, a tutto pregiudizio del principio di conservazione del contratto.

In materia di appalto, la Legge (art. 1664 c.c.) fa un passo in avanti, consentendo al contraente pregiudicato dall’imprevisto mutamento dei costi del materiale di chiedere la revisione delle condizioni, ma si badi, soltanto quando detto mutamento ecceda il decimo del prezzo complessivo convenuto e comunque solo per la parte in eccedenza.

Mancando nell’ordinamento uno specifico dovere di rinegoziazione, il riequilibrio del contratto viene insomma rimesso alla volontà della Parte non pregiudicata che ben potrebbe opporsi alla richiesta. Si consideri peraltro che la mera richiesta di rinegoziazione del prezzo non dà, di per sé, alla Parte svantaggiata il diritto di sospendere l’esecuzione del contratto.

Appare dunque evidente la necessità per le imprese di dotarsi di una disciplina propria in merito, in modo da poterne fare immediato ricorso all’occorrere di simili eventualità senza dover sottostare al placet di controparte.

In particolare, è opportuno che l’azienda si doti, nelle condizioni generali di contratto ovvero nel contratto particolare col Cliente, di una specifica clausola di variazione del prezzo correlata all’aumento dei costi di produzione che si verifichi nel corso dell’esecuzione del contratto. Siffatta clausola, che nei contratti commerciali assume il nome di clausola di hardship, permette la predeterminazione del rimedio azionabile dalla Parte qualora sopravvenisse un’eccessiva onerosità della prestazione a suo carico.

La clausola potrebbe introdurre uno specifico obbligo di rinegoziazione tra le Parti, prevedere le conseguenze del mancato raggiungimento dell’accordo (ad esempio consentendo alle Parti di rivolgersi a un terzo per riportare il contratto ad equità) e ridurre solo ad ultima ratio la possibilità della risoluzione del rapporto. Infine, in caso di inadempimento all’obbligo di rinegoziazione, si potrebbe far ricorso a clausole penali e ipotesi di recesso, clausole non solo con valenza deterrente, ma anche volte a risanare per quanto possibile la parità economica tra le Parti.

In conclusione, laddove l’azienda fornitrice ravvedesse la necessità di una revisione in aumento dei prezzi precedentemente concordati col Cliente, in assenza di una concorde volontà di controparte, potrebbe certamente far ricorso ai rimedi codicistici sopra descritti, ma con la consapevolezza che non sono strumenti orientati alla conservazione del contratto. Ben più soddisfacente quindi risulta il ricorso preventivo a una disciplina contrattuale quanto più esauriente in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta, che preveda clausole di hardship in grado di provvedere automaticamente e senza contenzioso al riequilibrio dell’alea contrattuale.

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Dott.ssa Francesca Signoroni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vendita o Appalto?

Abstract

“Per costante giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, mentre oggetto del contratto di appalto è il risultato di un facere (anche se comprensivo di un dare), che può concretarsi sia nel compimento di un’opera che di un servizio che l’appaltatore assume verso il committente dietro corrispettivo, oggetto del contratto di vendita è invece il trasferimento di un bene a cui può essere connessa un’obbligazione di fare, ovvero l’obbligazione di “mettere in opera” il bene compravenduto” (Trib. Velletri, sentenza n. 174 del 28 gennaio 2022).

La linea di demarcazione tra appalto e compravendita è molto sottile; non è sempre agevole distinguere queste due figure contrattuali e accade spesso che un contratto venga qualificato come compravendita quando in realtà – da un’attenta analisi che esula dal nomen iuris attribuito dalle parti – trattasi di appalto e così viceversa.
Sorge inevitabile chiedersi quale sia il motivo per cui una tale distinzione rivesta una così fondamentale importanza. Ebbene, non si tratta di una mera questione terminologica: differente è la disciplina giuridica, con particolare riguardo alle garanzie dovute nel caso in cui il bene oggetto della prestazione si scopra affetto da vizi.
E allora come capire in modo chiaro se un contratto sia qualificabile come vendita o come appalto?
In termini generali, la distinzione tra appalto e compravendita va principalmente tracciata in relazione al criterio della prevalenza dell’obbligazione di dare rispetto a quella di fare, avendo però sempre ben chiaro quale sia l’effettivo assetto di interessi pattuito dalle parti. In altri termini, per costante giurisprudenza, l’oggetto del contratto di appalto è il risultato di un “facere” (talvolta anche comprensivo di un dare), ovvero il compimento di un’opera o di un servizio che l’appaltatore assume verso il committente dietro corrispettivo di un prezzo; invece, oggetto del contratto di vendita è il trasferimento di un bene a cui può essere anche connessa un’obbligazione di fare (messa in opera del bene compravenduto) dietro il corrispettivo di un prezzo.
Sul solco di questo ormai consolidato orientamento giurisprudenziale si colloca una recentissima sentenza del Tribunale Ordinario di Velletri (n. 174 del 28.01.2022) in merito ad una controversia insorta tra due società, una delle quali patrocinata proprio dallo scrivente Studio, ed avente quale fulcro proprio la qualificazione di un contratto quale compravendita anziché appalto, ove è stato ancora una volta ribadito che “ai fini della differenziazione tra vendita ed appalto, quando alla prestazione di fare, tipica dell’appalto, si affianchi quella di dare, tipica della vendita, deve aversi riguardo alla prevalenza o meno del lavoro sulla materia, da considerarsi non in senso meramente oggettivo, bensì anche con riguardo alla volontà dei contraenti al fine di accertare nei singoli casi se la somministrazione della materia sia un semplice mezzo per la produzione dell’opera ed il lavoro lo scopo del negozio (appalto), oppure se il lavoro sia il mezzo per la trasformazione della materia ed il conseguimento della cosa l’effettiva finalità del contratto, nel quale caso quest’ultimo dovrà qualificarsi come compravendita”.
Alla luce di ciò, un consiglio pratico può quindi essere quello di redigere il testo del contratto – anche qualora trattasi di condizioni generali – in maniera tale da enfatizzare lo specifico scopo perseguito dalle parti (quindi la volontà di concludere un contratto di un tipo o di un altro), nonché l’oggetto della pattuizione così da permettere all’interprete – in caso di possibili controversie – una corretta qualificazione dell’accordo concluso.

avv. Chiara Barzaghi

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